Ora licenziare conviene: il Jobs Act tra sgravi, indennizzi e buchi neri
La UIL si è premurata di mettere a confronto gli sgravi fiscali da nuove assunzioni per le imprese e le ipotesi di indennizzo da erogare in presenza di un licenziamento economico (che prima del Jobs Act, se ritenuto illegittimo da parte di un giudice, prevedeva il reintegro). Ebbene: le stime sull’indennizzo (definito nella riforma “certo e crescente”) parlano di una mensilità e mezzo per ogni anno lavorato, e la differenza fra il costo del licenziamento ed il guadagno dallo sgravio contributivo oscillerebbe tra i 2.800 e i 5.000 euro per lavoratore. Dunque licenziare un lavoratore, seppure ingiustamente, per assumerne un altro può convenire parecchio.
E’ evidente che una falla del genere può essere risolta in soli due modi: o si alzano gli indennizzi ad un livello più conveniente per il lavoratore e meno per l’azienda, oppure si prevede una norma che vieti alle imprese di assumere in presenza di licenziamenti ingiustificati.
Un altro punto debole è quello del blocco della mobilità. E’ improbabile che un lavoratore oggi tutelato dall’articolo 18 decida di spostarsi, andando a firmare un nuovo contratto che invece non lo prevede. Non si recupererà alcuna mobilità, chi ha un posto di lavoro farà di tutto per non perderlo senza avventurarsi in territori sconosciuti.
Irrisolto anche il punto più volte sollevato dalla CGIL, ovvero la disparità di condizioni tra lavoratori impiegati con le medesime mansioni. Un lavoratore assunto dal momento in cui il Jobs Act sarà in vigore non godrà degli stessi diritti di chi è stato assunto prima, anche a fronte dello stesso contratto a tempo indeterminato. E siccome l’articolo 3 della Costituzione recita che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”, il sindacato pensa che possa essere proprio questo l’appiglio per ricorrere in sede europea contro la legge.
Detto che il governo ha spesso parlato di abolizione dei co.co.pro., ma che nel testo si parla solo di “superamento”, l’esecutivo sostiene che il contratto a tutele crescenti diventerà la norma nei rapporti di lavoro. Tuttavia nel provvedimento non si parla di abolire i contratti a termine acausali, ossia quelli che prevedono fino a cinque rinnovi in 36 mesi senza specificazione della causale. E’ evidente che ai datori di lavoro convenga nettamente di più affidarsi a questi ultimi che non a quelli a tutele crescenti.
Peraltro i decreti attuativi, che dovrebbero dare un senso chiaro ad una delega fiscale scarna proprio a partire dall’individuazione oggettiva dell’indennizzo, sono ancora lontani dall’essere pronti. Renzi aveva annunciato che sarebbero stati presentanti nel corrente mese di dicembre per essere attuati a partire da gennaio, ma il Ministo Poletti ha dichiarato martedì che non saranno pronti “prima di tre mesi”.
FONTE: http://bit.ly/1Gg40As

