Se il datore di lavoro invia una mail con il licenziamento la comunicazione tramite posta elettronica è valida o si può impugnare?
Il tuo capo ti ha inviato una email e, aprendo il file allegato in pdf, hai trovato la lettera di licenziamento. In particolare ti veniva comunicato il preavviso e il recesso dal contratto di lavoro. Una modalità inusuale: i colleghi che, prima di te, hanno perso il posto hanno sempre ricevuto una raccomandata a/r. «Potrei anche non aver ricevuto l’email – pensi tra te e te, a sostegno delle tue ragioni – oppure il messaggio potrebbe essere finito nello spam o magari il computer potrebbe essere stato rotto o semplicemente potrei non aver aperto la casella di posta elettronica visto che non sono tenuto a farlo». La lettera ti dà 60 giorni di tempo per contestare il licenziamento. E non ti fai pregare: la prima cosa che eccepisci è la nullità della comunicazione per essere avvenuta con un mezzo informale e privo – a tuo dire – di valore legale. Il datore di lavoro però sostiene il contrario: avendo impugnato il licenziamento hai di fatto dimostrato di aver ricevuto l’email, di averla aperta e letta, di esserti insomma potuto difendere. Quindi, ogni recriminazione in merito a una presunta lesione del diritto alla difesa è morta già in partenza. Tu invece ribadisci che, per determinati atti – quelli più importanti per i diritti di un lavoratore – c’è sempre bisogno di usare una forma solenne e garantistica, come appunto la raccomandata, a prescindere dal ricevimento o meno della comunicazione per vie traverse. Chi ha ragione? È valida la lettera di licenziamento con email? La risposta è stata fornita dalla Cassazione con una recente e interessante sentenza.
Il punto di partenza è, come sempre, verificare cosa dice la legge. La norma [2] che disciplina le modalità di licenziamento richiede genericamente un atto scritto, ma non dice come questo debba essere comunicato al lavoratore. Lo scopo dell’atto scritto è quello di portare a conoscenza del destinatario la volontà del datore e di farlo in modo certo e che non possa essere successivamente modificato. Quindi, è sufficiente che sia rispettata tale finalità, ossia che il documento entri – in un modo o nell’altro – nella disponibilità materiale del dipendente affinché questi, dopo averne preso visione, possa eventualmente esercitare il proprio diritto di difesa. Si tutela quindi l’effettività e non la forma. Ciò significa – dice la Corte – che «il requisito della comunicazione per iscritto del licenziamento deve ritenersi assolto, in assenza della previsione di modalità specifiche, con qualunque modalità che comporti la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità».
Licenziamento: è più importante l’effettività che la forma
Detto ciò, è facile comprendere il risultato a cui porta il ragionamento fatto dalla Cassazione: una email, anche se non ha la firma digitale o se non viene spedita con posta elettronica certificata (la cosiddetta Pec, che è equiparata in tutto per tutto a una raccomandata), può ugualmente contenere un licenziamento, sia nel corpo del messaggio, sia con un allegato in pdf. Ma ad una sola condizione: che venga dimostrato o riconosciuto che il messaggio e l’eventuale allegato siano stati ricevuti effettivamente dal lavoratore. Pertanto, se il lavoratore risponde alla lettera di licenziamento presentando delle proprie difese, oppure contesta nei successivi 60 giorni il recesso del datore di lavoro, ha implicitamente ammesso di aver aperto l’email, di averla letta e, quindi, di aver potuto prendere le contromisure. Se invece il lavoratore non risponde e non dà alcun segno di riscontro, sarebbe impossibile – o quantomeno molto difficile – per il datore di lavoro provare il corretto recapito dell’email o che la stessa non è finita magari nello spam.
Nel caso specifico, la prova del ricevimento del messaggio (e del relativo contenuto) stava in una successiva comunicazione che il lavoratore aveva inviato a tutti colleghi, sempre a mezzo mail, informandoli che non avrebbe più lavorato presso l’azienda. Chiaramente una tale iniziativa del dipendente era incompatibile con la sua tesi, volta a negare che gli fosse stata offerta e letta la lettera di licenziamento.
Come l’email, anche un sms o un messaggio su WhatsApp possono contenere un licenziamento
Questo principio non è nuovo. Già in un precedente del 2007 la stessa Corte [3] aveva dichiarato non necessaria la raccomandata a/r per il licenziamento. Medesimo ragionamento si trova condiviso in una ordinanza del 27 giugno 2017 del tribunale di Catania che, per analoghe ragioni, ha ritenuto legittimo, sotto il profilo della sussistenza della forma scritta e della validità della sua comunicazione, il licenziamento intimato a mezzo di sms e di messaggio con Whatsapp (leggi Licenziamento via WhatsApp).
Per lo stesso motivo è anche valida la lettera consegnata a mano che il dipendente si sia rifiutato di controfirmare per accettazione, sempre che il datore dimostri l’effettiva consegna. In generale, ha detto la Cassazione [3], in tema di licenziamento, ove non siano previste modalità specifiche per la trasmissione della comunicazione di licenziamento, debbono ritenersi valide tutte le modalità che comportino la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità, quindi anche la consegna a mano del documento, personalmente al destinatario, all’interno della struttura aziendale, e il rifiuto a riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta e produca i relativi effetti.
note
[1] Cass. sent. n. 29753/2017.
[2] L. n. 604/1966.
[3] Cass., sent. 23061/2007.
[4] Trib. Catania, ord. del 27.06.2017.
FONTE: http://bit.ly/2CR6F87