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La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro

Quando è possibile l’accordo tra azienda e lavoratore per interrompere un contratto evitando una causa. Diritto a ripensarci e alla Naspi. Errori da evitare.

Non tutti i rapporti di lavoro si concludono ai ferri corti: molte volte si opta per la risoluzione consensuale del contratto. Capita, infatti, che il dipendente abbia trovato un posto più conveniente (in questo caso si parla di dimissioni) o che l’azienda in crisi raggiunga un accordo con il lavoratore (con tanto di buona uscita) per chiudere la collaborazione in modo amichevole.

Tuttavia, e affinché quella stretta di mano finale sia di lunga durata e non riservi qualche brutta sorpresa, è bene sapere in che cosa consiste la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, come bisogna comunicarla, quali sono i diritti di entrambe le parti.

Tra questi, per il dipendente, il diritto alla Naspi, se costretto – pur con le buone e non con le cattive – a lasciare il proprio posto e non ne ha trovato ancora un altro.

La riforma Fornero prima [1] ed il Jobs Act poi [2] hanno stabilito le regole e le procedure per convalidare una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e le dimissioni volontarie del dipendente. Vediamo come funziona questo meccanismo e quali sono i diritti di azienda e lavoratore.

Come avviene la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro?

A differenza delle dimissioni volontarie, dunque, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro avviene quando le parti (cioè datore e dipendente) raggiungono un accordo per interrompere il contratto, sia a causa di una ristrutturazione aziendale sia per porre fine ad una controversia fra entrambi.

La risoluzione consensuale può avvenire in forma immediata oppure in una data da concordare.

Di norma, viene pagata l’indennità di preavviso, cioè il numero di retribuzioni previsto dal contratto per i mesi non lavorati. In più, in caso di risoluzione consensuale proposta dall’azienda, viene offerta al dipendente (oltre al dovuto Tfr) una somma aggiuntiva, la cosiddetta buona uscita.

L’interruzione del rapporto di lavoro deve essere messa per iscritto. Non solo per la vecchia regola del «fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio», ma per altri motivi di convenienza e di procedura. Innanzitutto, solo un’intesa messa nero su bianco potrà dimostrare la volontà di entrambe le parti di risolvere il rapporto di lavoro e potrà evitare una successiva causa in Tribunale. E poi perché quell’accordo per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro deve essere inviato alla Direzione territoriale del lavoro (Dtl) oppure al Centro servizi per il lavoro (Csl) della provincia interessata entro 30 giorni dalla data di risoluzione del contratto, pena l’inefficacia della stessa.

La riforma Fornero ed il Jobs Act impongono la comunicazione della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro solo per via telematica attraverso gli appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sul proprio sito.

Questa comunicazione deve riportare:

  • dati del lavoratore;
  • dati del datore di lavoro;
  • dati del rapporto di lavoro che si intende risolvere;
  • dati della comunicazione e data di decorrenza delle stesse;
  • dati del soggetto abilitato, se presente, e del modello (codice e data certa di trasmissione con marca temporale); questi ultimi vengono generati automaticamente dal sistema, contestualmente al salvataggio del modello.

Dalla normativa sono esclusi:

  • i lavoratori domestici;
  • i lavoratori che si trovano in periodo di prova;
  • i lavoratori marittimi;
  • i lavoratori delle pubbliche amministrazioni.

Inoltre, il lavoratore deve convalidare direttamente la richiesta di risoluzione consensuale del contratto presso la Dtl nei seguenti periodi:

  • la gravidanza;
  • i primi tre anni di vita del bambino;
  • i primi tre anni di accoglienza di un minore adottato;
  • i primi tre anni che decorrono dalla comunicazione dell’invito ad un’adozione internazionale.

Risoluzione consensuale: posso ripensarci?

Una volta che le parti hanno deciso per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il dipendente ha 7 giorni di tempo per ripensarci, cioè per revocare la propria decisione. In questo caso, il contratto si intenderà ancora valido, ma l’azienda non riconoscerà al dipendente le ore non lavorate.

Poniamo il caso, ad esempio, di un accordo firmato oggi per risolvere il contratto in modo consensuale. Dopo 5 giorni, il dipendente decide di rimangiarsi tutto, cioè di revocare la sua decisione di lasciare il suo posto. Il rapporto di lavoro continuerà, la il datore gli pagherà 5 giorni in meno alla fine del mese, cioè quelli in cui non ha prestato servizio.

Quali errori da evitare in caso di risoluzione consensuale?

Attenzione a non commettere delle ingenuità. Una cosa è raggiungere un accordo con l’azienda per una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro in vista di una ristrutturazione interna e per evitare un licenziamento. Ed un’altra ben diversa è farsi incastrare da una falsa risoluzione consensuale con lo stratagemma delle dimissioni in bianco.

Ci sono ancora delle aziende che, al momento dell’assunzione, chiedono di firmare un foglio non datato in cui il lavoratore dice che se ne andrà in data da definire. Questa pratica non solo non è corretta ma è anche illegale: il datore di lavoro che ancora prova a fare queste cose può essere punito con una sanzione amministrativa fino a 30mila euro. Forse meglio che risparmi quei soldi per darli al dipendente come buona uscita quando effettivamente avverrà la risoluzione consensuale.

Altro errore da evitare: comportarsi prima del tempo come se la risoluzione fosse già avvenuta. Ad esempio, assentarsi dal lavoro senza giustificato motivo perché «tanto siamo d’accordo che me ne devo già andare». Sarebbe un motivo valido per l’azienda per contestare quelle assenze con un procedimento disciplinare che manderebbe tutto per aria.

Risoluzione consensuale: ho diritto alla Naspi?

In caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si ha diritto alla Naspi, cioè all’indennità di disoccupazione introdotta dal Jobs Act, in questi casi:

  • quando c’è una procedura di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro;
  • quando c’è un licenziamento con accettazione dell’offerta di conciliazione entro 60 giorni dalla notifica scritta del licenziamento;
  • quando il lavoratore respinge un trasferimento di sede distante più di 50 km da quella attuale o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi di trasporto dalla sua abitazione.

Dopo una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con tentativo di conciliazione [3] non spetta la Naspi ai lavoratori appartenenti ad aziende con meno di 15 dipendenti[4].

[1] Legge n. 92/2012.

[2] Dlgs. non 151/2015.

[3] Art. 410 cod. proc. civ.

[4] Nota Min. Lavoro del 12.02.2016.

FONTE: http://bit.ly/2DPZkWC

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