Licenziamento illegittimo: al dipendente spetta la restituzione del posto se il fatto non esiste o se il licenziamento è nullo per gravi violazioni di legge.
In caso di licenziamento dichiarato illegittimo dal tribunale, la cosiddetta reintegra sul posto di lavoro – ossia la restituzione della stessa posizione con effetto retroattivo e, quindi, con continuità rispetto al momento del licenziamento stesso – doveva essere l’eccezione secondo l’originario apparato normativo introdotto dal Jobs Act. Invece sta diventando un’ipotesi tutt’altro che rara. A seguito infatti di numerosi interventi della Corte Costituzionale, tutte le volte in cui il licenziamento avviene per gravi violazioni di legge o per insussistenza dei motivi, il dipendente ha diritto ad essere riammesso al lavoro (fatta comunque salva la sua scelta di optare solo per il risarcimento).
Cerchiamo dunque di verificare, ad oggi, quando è previsto il reintegro sul posto di lavoro.
Licenziamento nullo
Quando la procedura di licenziamento non rispetta le forme imposte dalla legge la risoluzione del rapporto di lavoro è nulla e pertanto non produce effetti. È quindi come se non fosse mai avvenuta. Il che dà diritto al dipendente ad ottenere la reintegra.
Ciò avviene innanzitutto quando il licenziamento è orale. La legge infatti stabilisce che il provvedimento di licenziamento debba essere sempre comunicato per iscritto (anche se non specifica se ciò debba avvenire con raccomandata, lettera semplice, email, sms: l’importante è che vi sia prova del ricevimento).
Dunque la classica comunicazione di licenziamento proferita verbalmente (un po’ come avviene nei film dove si sente sbraitare il capo: «Sei licenziato!») non ha alcun valore. Essa quindi comporta la reimmissione del dipendente nella propria posizione precedente, conservando la medesima qualifica, anzianità contributiva, ecc.
Licenziamento della donna incinta o neomamma o del neopapà
La Costituzione tutela la famiglia. Ragion per cui non si può licenziare una donna a causa della sua gravidanza o della recente nascita di un figlio. Diversamente il licenziamento è nullo; anche in questo caso pertanto opera la reintegra sul posto. La legge fissa dei limiti temporali entro in cui il licenziamento si presume avvenuto a causa della maternità
In particolare è nullo il licenziamento intimato:
- alla lavoratrice madre dall’inizio della gravidanza e sino al compimento di un anno di età del bambino. L’inizio della gestazione si presume avvenuto 300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato di gravidanza;
- al padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso e fino al compimento di un anno di età del bambino;
- causato dalla domanda o dalla fruizione dell’astensione facoltativa e del congedo per malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore. Chiaramente queste regole non si applicano al licenziamento per crisi o per chiusura, al licenziamento per comportamento scorretto del dipendente (ossia per un motivo disciplinare) posto prima o durante la maternità;
Resta pur sempre la possibilità, per il datore di lavoro, di dimostrare che il licenziamento non è avvenuto a causa della maternità ma di altre ragioni come, ad esempio, una grave violazione disciplinare da parte della dipendente.
Licenziamento in prossimità del matrimonio
La legge vieta di comunicare il licenziamento dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo le nozze. Diversamente, anche in questo caso, il licenziamento è nullo e il datore di lavoro è tenuto al reintegro sul posto.
Licenziamento per ritorsione
Spesso avviene che il datore di lavoro usi l’arma del licenziamento come ritorsione nei confronti del dipendente che non ha accettato magari condizioni di lavoro inique o che ha fatto valere i propri diritti in tribunale contro l’azienda. E così, se la comunicazione di licenziamento non è supportata da validi motivi e avviene proprio in prossimità di uno di questi eventi (si pensi alla causa intentata per ottenere gli straordinari, le differenze retributive o gli arretrati), al dipendente spetta la reintegra.
Licenziamento discriminatorio
Ben potrebbe succedere che il licenziamento sia determinato da cause discriminatorie come, ad esempio, una intervenuta disabilità o in ragione dell’orientamento politico, sessuale, religioso. In tutti questi casi siamo dinanzi a un’ipotesi di licenziamento nullo che consente al dipendente di ottenere la reintegra.
Licenziamento per insussistenza del motivo
Come noto, il licenziamento può essere intimato per due grandi macro-categorie:
- licenziamento disciplinare;
- licenziamento economico.
Il licenziamento disciplinare è quello che deriva da una grave violazione della legge, del contratto o del regolamento aziendale da parte del dipendente. La causa dunque del licenziamento è il comportamento di quest’ultimo.
Il licenziamento disciplinare poi, a seconda della gravità della condotta contestata, può essere di due tipi:
- licenziamento per giusta causa: in tale ipotesi il comportamento è tanto grave da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro neanche per un solo giorno (si pensi al dipendente che ruba, che non si presenta al lavoro per più giorni senza dare spiegazioni, che minaccia il datore di lavoro, che finge una malattia). In tali casi il licenziamento avviene in tronco, ossia senza preavviso;
- licenziamento per giustificato motivo soggettivo: qui la causa del licenziamento, pur essendo sufficientemente grave da rompere il legame di fiducia tra datore e dipendente, non lo è tanto da non consentire la prosecuzione del rapporto durante il preavviso. Quindi, a seguito della lettera di licenziamento, il rapporto prosegue fino allo scadere del preavviso, salvo che una delle due parti vi rinunci (ma se lo fa il datore di lavoro, al dipendente spetta un’indennità).
Il licenziamento economico è quello, invece, che deriva da questioni attinenti all’organizzazione o alla produzione dell’azienda. È anche detto licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Non è solo il caso della grave crisi che implichi la riduzione del personale, ma anche la necessità di accorpare posizioni per evitare sprechi, l’esternalizzazione di determinate mansioni, la cessione di un ramo d’azienda, la cessazione di determinate mansioni, la sostituzione dei computer o dei robot all’uomo, finanche la necessità di raggiungere un maggior utile.
La Cassazione ritiene che nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientri anche il caso di chi, non potendo più svolgere la propria attività per via di una malattia sopravvenuto che ne abbia limitato le capacità fisiche, non può essere adibito ad altre mansioni.
Dunque, secondo la giurisprudenza, l’insussistenza dei motivi (disciplinari o economici) fa sì che al dipendente spetti la reintegra sul posto di lavoro. Si pensi a un licenziamento intimato:
- a fronte della contestazione di una condotta che, in realtà, il dipendente non ha mai commesso o di un fatto che non costituisce illecito disciplinare;
- a fronte di una asserita ristrutturazione aziendale che invece non viene mai effettuata;
- a seguito di una dichiarata riduzione del personale a cui però fa seguito una nuova assunzione per l’attribuzione delle stesse mansioni del dipendente licenziato;
- a seguito di una asserita cessazione della posizione che, in realtà, continua ad essere svolta.
Diverso è il caso della sanzione disciplinare eccessivamente grave rispetto all’illecito. In questo caso, sussistendo il fatto, al dipendente spetta solo il risarcimento del danno ma il licenziamento resta fermo. Si legga in proposito Sanzione disciplinare sproporzionata: che succede?
Altri licenziamenti nulli
Con la sentenza 22 del 22 febbraio scorso, la Corte costituzionale ha apricato il novero delle ipotesi di licenziamento con diritto alla reintegra ricomprendendovi anche le seguenti ipotesi:
- licenziamento durante la malattia se il periodo di comporto non è ancora scaduto;
- licenziamento in contrasto col diritto di sciopero;
- licenziamento per disabilità.
Violazione della procedura
Tanto il licenziamento per motivi disciplinari che per motivi economici impongono il rispetto di una procedura la cui violazione causa la nullità del licenziamento stesso e quindi garantiscono il reintegro sul posto.
In particolare, per quanto riguarda il licenziamento disciplinare, se al dipendente non viene dato il termine di cinque giorni dall’invio della contestazione disciplinare per presentare le memorie a propria difesa e/o per chiedere di essere ascoltato personalmente, il licenziamento è illegittimo e il datore è tenuto a riprendere il lavoratore alle proprie dipendenze.
Per quanto invece riguarda il licenziamento economico, la legge non impone un previa contestazione (anche perché non ci sarebbe nulla da contestare); tuttavia il datore di lavoro è tenuto a verificare, prima di risolvere il rapporto di lavoro, se il dipendente possa essere adibito a mansioni diverse, dello stesso livello contrattuale o, in assenza, anche di livello inferiore. E ciò al fine di conservare il suo posto. È ciò che si chiama tecnicamente repêchage (o ripescaggio). Ebbene, secondo la Cassazione [1], la violazione di tale obbligo consente al dipendente di impugnare il licenziamento e ottenere la reintegra.
Dunque, non basta il risarcimento in favore del lavoratore dopo il licenziamento illegittimo perché ha mancato di dimostrare l’impossibilità di ricollocare utilmente il dipendente. E ciò perché la Consulta con la sentenza [2] ha dichiarato in parte incostituzionale l’articolo 18, settimo comma, dello statuto dei lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero, stabilendo che nei licenziamenti economici scatta la reintegra anche se l’insussistenza del fatto non è manifesta.
note
[1] Cass. ord. n. 33341/2022
[2] C. Cost. sent. n. 125/22.
FONTE: https://shorturl.at/bsxJK
