Il contratto collettivo può prevedere condizioni peggiori della legge?
Potrebbe succedere di trovare disposizioni del contratto collettivo nazionale che prevedano, per i lavoratori dipendenti, condizioni peggiori rispetto a quelle previste dalla legge per la generalità dei lavoratori. Avviene spesso, ad esempio, quando si tratta di stabilire il riposo tra un turno e l’altro. In tali ipotesi, chi prevale tra legge e CCNL?
Hai dubbi su quali norme regolano il tuo rapporto di lavoro? Ti sei mai chiesto se la legge o il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) hanno lo stesso valore e quale dei due debba applicarsi in caso di contrasto? In questo articolo, faremo chiarezza su questo importante tema. Esamineremo il principio di gerarchia delle fonti normative nel diritto del lavoro italiano e spiegheremo come si applica in concreto.
Scoprirai perché la legge prevale sempre sul CCNL, come quest’ultimo può migliorare le condizioni lavorative rispetto alla legge, in quali casi tale contratto può derogare alla legge, cosa fare in caso di dubbi o contrasti tra legge e CCNL.
Chi prevale tra legge e CCNL?
Nel sistema giuridico italiano, il rapporto tra legge e Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è regolato dal principio della gerarchia delle fonti normative.
Ebbene, salvo espressa disposizione di legge (come, ad esempio, per i contratti di prossimità), quando entrano in contrasto tra loro “fonti” di diversa natura (come appunto la legge da un lato e il contratto collettivo dall’altro) prevale quella di rango superiore.
Pertanto, in caso di contrasto tra legge e CCNL prevale la prima, in quanto fonte di rango primario del nostro ordinamento. In altre parole, le norme contenute nella legge hanno maggiore forza normativa rispetto a quelle racchiuse nel CCNL.
Facciamo un esempio. La legge stabilisce che il lavoratore ha diritto a un minimo di 4 settimane di ferie retribuite all’anno. Il CCNL può prevedere un numero maggiore di giorni di ferie retribuite, ma non può ridurlo a meno.
Le ragioni di questa prevalenza sono diverse:
- la legge è approvata dal Parlamento, che rappresenta il potere legislativo dello Stato (e quindi il popolo), mentre il CCNL è un accordo tra le parti sociali (datori di lavoro e sindacati) che ha solo un valore contrattuale, seppur applicabile anche ai non aderenti al sindacato firmatario;
- la legge ha carattere generale e astratto, mentre il CCNL disciplina rapporti specifici tra le parti firmatarie;
- la legge è espressione della volontà popolare, mentre il CCNL è il risultato di una negoziazione tra le parti sociali.
Ciò significa che, in caso di contrasto tra una norma di legge e una norma di CCNL, la norma di legge prevale e quella di CCNL è disapplicata.
Quando il CCNL può derogare alla legge?
Il CCNL, in quanto fonte gerarchicamente inferiore, può di norma derogare alle norme di legge solo in senso più favorevole al lavoratore.
In caso contrario, le clausole contenute nel CCNL peggiorative rispetto alla legge si considerano nulle e vengono sostituite automaticamente da quelle più favorevoli.
Dinanzi al rifiuto del datore di conformarsi alle norme di legge, il dipendente avrebbe la facoltà di rivolgersi al giudice del Tribunale del lavoro affinché lo condanni a disapplicare il CCNL.
Lo stesso dicasi quando il contratto aziendale entra in contrasto con il contratto collettivo. In tal caso prevale quest’ultimo, potendo il primo adottare solo delle disposizioni più vantaggiose per il lavoratore.
L’aspetto più problematico è stabilire cosa si intende con «condizioni di miglior favore» soprattutto quando, con riferimento ad un dato rapporto lavorativo, coesistono condizioni “peggiorative” su taluni istituti e “migliorative” su altri. Generalmente, il criterio più idoneo per individuare concretamente un “trattamento di miglior favore” in uno specifico rapporto è quello di effettuare il confronto tenendo conto soltanto delle clausole che, nel loro complesso, realizzano una stessa funzione di tutela, quando essa sia garantita con l’inderogabilità.
Nulla tuttavia impedisce alla stessa legge di lasciare maggiore autonomia ai CCNL, consentendo alle parti sociali di prevedere disposizioni più restrittive per i lavoratori al fine di soddisfare determinate esigenze aziendali in specifici settori.
Si pensi al campo dei turni e dei riposi.
Partiamo dai riposi. Il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo consecutive ogni 24, calcolate dall’ora d’inizio della prestazione lavorativa. Il periodo di riposo minimo (11 ore) non può essere diminuito da accordi tra le parti.
Il criterio della consecutività può essere derogato per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata (ad esempio attività di ristorazione e di pulizia) o da regimi di reperibilità.
Anche in materia di orario lavorativo, il CCNL o il contratto aziendale potrebbero prevedere delle disposizioni differenti rispetto alla legge. A dire il vero, alcuna norma stabilisce espressamente un limite massimo giornaliero di durata dell’attività di lavoro. Deduciamo che tale limite è di 13 ore al giorno (ferme restando le pause) visto che vengono imposte 11 ore di riposo consecutive ogni 24. Dunque 24 − 11 = 13 ore di lavoro massime giornaliere. In genere, però, sono i contratti collettivi che lo stabiliscono.
L’organizzazione dell’orario giornaliero (numero di ore lavorative, ora d’inizio e di termine della prestazione e durata degli intervalli di riposo) è, in genere, rimessa a criteri individuati a livello aziendale.
Il datore di lavoro può instaurare un regime di orario:
- elastico, in virtù del quale i lavoratori possono iniziare e concludere il lavoro entro una determinata fascia oraria;
- più rigido in presenza di esigenze di tipo produttivo, quando la lavorazione deve iniziare puntualmente in un determinato momento (ad esempio: lavorazioni a catena o lavoro degli addetti all’accensione di macchine).
FONTE: https://shorturl.at/7PAPA
