Lavoro e Previdenza, Norme e Giurisprudenza

L’INPS non riconosce il lavoro subordinato dei parenti

L’INPS non riconosce il lavoro subordinato dei parenti

L'Inps non riconosce il lavoro subordinato dei parenti

Lavoro dipendente proibito per mogli e figli, nipoti e generi. Insomma, per tutti i familiari stretti. Anche se la legge non pare porre preclusioni espresse al riguardo, se l’impresa è familiare il rischio di vedere disconosciuti dall’Inps i rapporti di lavoro subordinato instaurati tra parenti e affini risulta più che concreto. Per non dire certo. Tanto che, oramai, quando tra le parti corrono relazioni familiari, sono gli stessi professionisti che preferiscono indurre le aziende a considerare da subito di inquadrare i rapporti nella meno osteggiata collaborazione familiare. Il risultato finale, in definitiva, è quello di una minore garanzia degli appartenenti alla famiglia in seno all’impresa rispetto ad altri lavoratori. Possibile? Esistono davvero effettivi – quantunque striscianti – divieti di legge al lavoro subordinato tra moglie e marito o tra padre e figlio? Un quesito di non poco conto e che oramai, sul territorio nazionale, riguarda migliaia di casi e lavoratori. Tanto più che, come sovente accade, la realtà supera la fantasia.

Il caso, sintomatico e realmente accaduto, è quello di un’impresa artigiana costituita come snc tra due soci, non parenti tra loro. Un giorno viene assunta quale dipendente una signora, che, dopo qualche tempo, si fidanza con uno dei soci. Nel frattempo, l’altro socio decide di cedere la sua quota e uscire dalla compagine. A questo punto, si decide di trasformare la snc in sas, facendo della signora l’accomandante. Lei, come tutti gli altri dipendenti, «transita», così, nella sas. E fin qui, tutto a posto. I guai nascono il giorno in cui la signora (accomandante) e il socio fidanzato (accomandatario), a coronamento del loro sogno d’amore, decidono di sposarsi. Infatti, due anni dopo compaiono in azienda gli ispettori dell’Inps, i quali decidono che, essendo al cospetto di un’impresa «familiare» – diciamo, per “susseguente matrimonio” – la signora debba essere considerata collaboratrice familiare a fare data dal matrimonio stesso. Una riqualificazione familiare dell’azienda e un disconoscimento del rapporto di lavoro subordinato che crea, a catena, pesanti conseguenze economiche, dato che, nel frattempo, la signora aveva avuto un bambino (e l’Inps pretende la restituzione dell’indennità di maternità percepita) e l’azienda ha subito una crisi
congiunturale (e l’Inps vuole recuperare dalla signora l’indennità di disoccupazione goduta).

Le motivazioni addotte di volta in volta dall’Inps, in questo e in altri casi, si rifanno a diverse previsioni normative (cff. art. 2 della legge n. 463/1959) e di prassi (cfr. circolare n. 179/1989), spesso risalenti, che, pure destinate a regolamentare l’eventuale impiego quali coadiuvanti dei familiari, non risultano affatto potere precludere la facoltà di scegliere una diversa volontà contrattuale dei medesimi. A rinforzare la propria prassi, sovente l’Inps richiama la giurisprudenza delle Cassazione. Per esempio, la sentenza n. 20532 del 2008, della Suprema Corte, che analizza gli elementi sintomatici della subordinazione. Una “proibizione» al lavoro dipendente tra familiari? Neppure per sogno. Solo l’enunciazione degli opportuni criteri per discriminare i rapporti dipendenti genuini da quelli non tali. Molto utile, per esempio, nel caso di supposte frodi alla legge. Come nel caso di quei familiari e affini che simulano la subordinazione per lucrare provvidenze e benefici previdenziali.

Piuttosto, da qui a pensare a un limite legale al lavoro subordinato di parenti e affini, ne passa parecchia di differenza. In primo luogo poiché, molto banalmente, se davvero sussistesse una preclusione al lavoro subordinato tra parenti, tale disposizione contrasterebbe inesorabilmente con la nostra Costituzione e i suoi inderogabili principi di uguaglianza.

Poi poiché è la stessa disposizione originaria e fondante il lavoro nell’impresa familiare (nonché la definizione di quest’ultima: ossia, l’art. 230-bis, cod. civ., introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975) che stabilisce la residualità e marginalità del lavoro a titolo di collaborazione familiare («salvo che sia configurabile un diverso rapporto»). Dunque, la volontà contrattuale dei familiari, come sempre, prevale anche nei confronti dell’Inps. Almeno fino alla pronuncia del giudice.

Ma, soprattutto, il vincolo contrasterebbe con il buon senso e la logica. Perché un imprenditore potrebbe assumere nella sua azienda chiunque, tranne il proprio figlio? Perché il proprio marito o la propria nipote potrebbero lavorare in azienda solo in forza di rapporti meno garantiti e stabili, rispetto a quelli assicurati a qualunque altro lavoratore? Una serie di interrogativi che attendono ancora un rassicurante revirement ufficiale da parte dell’Inps.

L’orientamento dell’Inps
Secondo l’art. 2094 del codice civile è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.

Per stabilire, nella singola fattispecie, se il rapporto tra datore di lavoro e familiare realizzi lo schema legislativo delineato dal citato art. 2094 del codice civile, soccorre la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, relativa proprio ai rapporti di lavoro tra strettissimi parenti ed affini sia conviventi che non conviventi.

A titolo esemplificativo l’Inps riporta alcuni pronunciamenti della Suprema Corte:

  • nel caso di prestazioni lavorative rese fra persone conviventi legate da vincolo di parentela o di affinità le prestazioni stesse si presumono gratuite e non ricollegabili ad un rapporto di lavoro. Tale presunzione può essere vinta dalla dimostrazione, incombente alla parte che sostiene l’esistenza di un rapporto di lavoro, dei requisiti della subordinazione e dell’onerosità delle rispettive prestazioni, ma deve trattarsi di prova precisa e rigorosa non evincibile dalla sola circostanza che le attività in questione anziché svolgersi nello stretto ambito della vita familiare e comune, attengano all’esercizio di un’impresa, qualora questa sia gestita ed organizzata con criteri prevalentemente familiari, di per se’ soli non compatibili con l’entità economica dell’impresa e con le sue empiriche variabili strutturali ed organizzative” (Cass., sent. n. 1880/80);
  • la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese fra persone legate da vincoli di parentela – per il superamento della quale è necessaria la prova precisa e rigorosa dell’onerosità delle prestazioni stesse – sussiste anche nel caso di attività lavorativa eseguita nell’ambito di un’impresa, qualora questa sia gestita ed organizzata, strutturalmente ed economicamente, con criteri prevalentemente familiari, e non quando l’impresa abbia notevoli dimensioni e per quanto condotta da familiari sia amministrata con criteri rigidamente imprenditoriali” (Cass., sent. n. 2660/84);
  • nel caso in cui i soggetti del rapporto di lavoro siano conviventi le relazioni di affetti familiari di parentela e di interessi tra essi esistenti giustifica la presunzione di gratuità, mentre, nell’ipotesi di soggetti non conviventi sotto lo stesso tetto, ma appartenenti a nuclei familiari distinti ed autonomi, tale presunzione cede il passo a quello di normale onerosità del rapporto superabile con la dimostrata sussistenza di sicuri elementi contrari” (Cass.. sent. n. 3287/86).

I criteri ricavabili dalle riportate pronunce giurisprudenziali trovano principale applicazione nei rapporti instaurati nell’ambito delle imprese individuali, delle società di persone e delle attività non rientranti nel concetto di impresa (ad esempio, studi professionali). Minore applicazione possono avere nei confronti delle società di capitali, salve particolari situazioni da valutare di volta in volta, in quanto la figura del datore di lavoro si identifica nella società e non nella persona degli amministratori.

Non sono applicabili alle imprese familiari, nelle quali non è ravvisabile il requisito della subordinazione.

Inps – Circolare N. 179/89

FONTE: http://bit.ly/1Osn9VH

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