“Demansionamento: cos’è, come difendersi e quando è consentito. “
Si parla spesso di demansionamento come di uno dei possibili abusi che il datore di lavoro potrebbe commettere ai danni del dipendente. Ma quando c’è demansionamento? È quanto cercheremo di illustrare in questa guida pratica.
Dopo aver spiegato cos’è il demenazionemento e come difendersi, illustreremo quando è possibile spostare un dipendente da una mansione a un’altra senza perciò violare la legge. Lo faremo tenendo conto di alcune recenti sentenze della Cassazione che hanno fornito importanti chiarimenti sul tema. Ma procediamo con ordine.PUBBLICITÀ
Cos’è il demansionamento?
Così come stabilisce l’articolo 2103 del codice civile, il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito oppure a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Il demansionamento si verifica dunque quando il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto.
Invero la legge prevede delle eccezioni al divieto di demansionamento; di tanto però ci occuperemo a breve.
Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle previste dalla legge, il demansionamento è da considerarsi illegittimo. A fronte di ciò il dipendente può difendersi chiedendo il ripristino delle sue originarie mansioni oppure può dimettersi per giusta causa. In entrambe le ipotesi gli è consentito chiedere il risarcimento del danno (aspetto, anche questo, che approfondiremo più avanti).h
È illegittimo spostare un lavoratore da mansioni di concetto a compiti manuali anche se la variazione avviene all’interno della medesima qualifica contrattuale. A riguardo la Cassazione ha specificato che [1] «il divieto di demansionamento opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori; nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e garantire lo svolgimento e accrescimento delle sue capacità professionali» [2].
Termine per contestare il demansionamento
Il lavoratore ha tutto il tempo per contestare il demansionamento finché questo si consuma. E il datore di lavoro non può neppure invocare, a proprio favore, una acquiescenza del dipendente ai nuovi compiti basata soltanto sul decorso di un lasso di tempo senza che mai sia intervenuta una formale contestazione [1]. Il lavoratore infatti potrebbe aver preferito obbedire solo per evitare un pregiudizio maggiore (un licenziamento o una sanzione disciplinare) senza per questo rinunciare alla volontà di voler agire contro l’azienda in un momento successivo per l’eliminazione del nuovo ordine di servizio.
Una volta però terminato il demansionamento o il rapporto di lavoro, il dipendente ha 5 anni di tempo per avviare la causa contro il demansionamento, per chiedere il risarcimento.
Come difendersi dal demansionamento?
Dinanzi a un demansionamento, il lavoratore può difendersi adottando diverse strategie.
Il ripristino della mansione
Innanzitutto egli può sempre chiedere (anche con un ricorso presentato in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta. Attraverso l’ausilio di un avvocato, il lavoratore potrà rivolgersi al giudice affinché:
- ordini al datore di lavoro di ripristinare la corrispondenza fra mansioni concretamente svolte e il suo inquadramento contrattuale;
- condanni l’azienda al risarcimento del danno.
Le dimissioni per giusta causa
In alternativa, il dipendente può dimettersi per giusta causa, senza quindi dover dare il preavviso e, nello stesso tempo, maturando il diritto a ottenere l’indennità di disoccupazione dell’Inps (riconosciuta appunto in tutti i casi di dimissioni per cause non riconducibili alla volontà del dipendente). Per le dimissioni per giusta causa, tuttavia, è necessario che il demansionamento presenti una gravità tale da impedire la prosecuzione – anche provvisoria – del rapporto.
Anche nel caso di dimissioni per giusta causa è riconosciuto al dipendente il diritto a richiedere il risarcimento del danno.
Il risarcimento del danno
l danno da demansionamento può essere sia di natura patrimoniale (ad esempio, il danno da perdita di chance), sia di natura non patrimoniale (ad esempio, il danno all’integrità psichica, alla professionalità o all’immagine). Il danno non patrimoniale è risarcibile quando la condotta illecita del datore di lavoro viola in modo grave i diritti del lavoratore (oggetto di tutela costituzionale), in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti.
Il danno da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento, ma deve essere dimostrato dal lavoratore, attraverso elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti che diano conto della qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, del tipo e della natura della professionalità coinvolta, della durata del demansionamento, della diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.
Ciò che però non può fare il dipendente in caso di demansionamento è rifiutarsi di svolgere, nell’immediato, la prestazione lavorativa che gli è stata ordinata. Tale rifiuto infatti è inquadrabile come una insubordinazione. Compito del dipendente è quindi adempiere all’ordine di servizio ma, nel contempo, può agire in tribunale per far valere i propri diritti.
Il rifiuto di svolgere le nuove mansioni è legittimo solo se rappresenta una reazione del lavoratore proporzionata e conforme a buona fede [3]. Si pensi al caso di un dirigente a cui viene chiesto di lavare i bagni.
Quando il demansionamento è legittimo
Il datore di lavoro può demansionare il dipendente, senza violare la legge, solo in due ipotesi:
- se c’è una modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso;
- se previsto dai contratti collettivi.
In entrambi i casi le nuove mansioni possono appartenere al livello di inquadramento immediatamente inferiore nella classificazione contrattuale, a patto che rientrino nella medesima categoria legale.
Il demansionamento deve essere obbligatoriamente comunicato al dipendente con lettera scritta, a pena di nullità.
A un lavoratore con qualifica di vetrinista, classificato al livello terzo del CCNL Terziario Confcommercio, potranno essere assegnate le mansioni di commesso alla vendita al pubblico (qualifica appartenente al quarto livello) in conseguenza di una modifica degli assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore. In questo caso, infatti, il lavoratore rimane all’interno della categoria impiegatizia.
In tali casi di demansionamento il lavoratore ha diritto di conservare il livello di inquadramento e lo stipendio che aveva prima dell’assegnazione alle mansioni inferiori. Possono essergli sottratti dalla busta paga solo quegli elementi retributivi collegati a particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore (ad esempio, indennità di cassa), che il datore di lavoro non è obbligato a mantenere.
Il demansionamento è poi considerato legittimo quando le mansioni inferiori che vengono delegate al dipendente sono marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non rientranti nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza [4].
Non è demansionamento neanche il riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo CCNL. In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate e deve essere salvaguardata la professionalità già raggiunta dal lavoratore [5].
Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
note
[1] Cass. sent. n. 16594/2020.
[2] La garanzia prevista dall’art. 2103 cod. civ., prosegue la Cass. sent. n. 16594/2020, «opera infatti anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva, precludendo l’indiscriminata fungibilità di mansioni per solo fatto dell’accorpamento convenzionale; conseguentemente, il lavoratore addetto a determinate mansioni non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorchè rientranti nella medesima qualifica contrattuale, dovendo, per contro, procedere ad una ponderata valutazione della professionalità del lavoratore al fine di salvaguardare, in concreto, il livello professionale acquisito e di fornire un’effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacità professionali».
[3] Cass. 24 gennaio 2013 n. 1693; Cass. 19 febbraio 2008 n. 4060; Cass. 12 febbraio 2008 n. 3304.
[4] Cass. 29 marzo 2019 n. 8910; Cass. 2 maggio 2003 n. 6714; Trib. Milano 9 marzo 2017.
[5] Cass. 3 settembre 2002 n. 12821; Cass. 4 marzo 2014 n. 4989
FONTE: https://bit.ly/31qCq5m