Contributi non versati: entro quanto chiederli?
La ex collaboratrice domestica della mia famiglia, dopo la morte di mio padre, ha rivendicato contributi e tfr non versati nei miei confronti. Tali richieste sono lecite?
I diritti e i crediti derivanti da rapporto di lavoro si possono prescrivere, a seconda della loro natura, in 10 o in 5 anni. Decorso inutilmente il predetto periodo di tempo, in assenza di una rivendicazione formale da parte del lavoratore (ad esempio, una raccomandata a.r. di messa in mora o una denuncia all’Inps), il diritto al pagamento o al riconoscimento di quel determinato diritto che si ritiene sia stato violato dal datore, viene definitivamente perduto.
Partendo dal presupposto che il rapporto oggetto del quesito posto fosse stato regolarmente denunciato agli Enti competenti, la questione è duplice:
- vi è stata un’omissione da parte del padre della lettrice nel versamento dei contributi spettanti alla collaboratrice domestica;
- alla collaboratrice non è stato corrisposto il tfr.
Con riguardo innanzitutto al mancato versamento contributivo, la questione è molto complessa e merita doveroso approfondimento.
Il datore di lavoro, nel momento in cui intende avvalersi della prestazione di un lavoratore dipendente, si obbliga contrattualmente non solo al rispetto delle regole che disciplinano il rapporto di lavoro tra le parti, ma anche al versamento dei contributi previdenziali all’Inps. Con la stipulazione del contratto di lavoro nasce pertanto anche un rapporto contributivo-previdenziale: il rapporto di lavoro è il fatto che genera, per legge, il rapporto previdenziale. Da tempo, quindi, la giurisprudenza è concorde nell’affermare che il lavoratore è titolare nei confronti del datore di lavoro di un vero e proprio diritto alla regolarità della posizione contributiva [1]. Tale diritto può essere qualificato come diritto all’integrità della contributiva e trova fondamento nella legge [2] che garantisce, attraverso un meccanismo detto “dell’automaticità delle prestazioni”, l’effettività del sistema previdenziale. In altre parole, in caso di omesso o parziale versamento contributivo da parte del datore, il lavoratore avrà comunque diritto alla pensione, provvedendo direttamente l’Inps a colmare il vuoto contributivo creatosi e rivalendosi, poi, nei confronti del datore; la previsione del rimedio del risarcimento del danno costituisce la norma finale di chiusura del sistema previdenziale. Ad esempio, se il diritto all’esatto versamento contributivo si sia prescritto, il lavoratore perde la posizione contributiva ma, in sostituzione, acquisisce il diritto al risarcimento del danno.
Il lavoratore, al quale non siano stati (in tutto o in parte) versati i contributi ha a disposizione, quindi, due diverse corrispondenti azioni legali:
- la richiesta di condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi omessi;
- il risarcimento del danno qualora dall’inadempienza contributiva sia derivata la perdita totale o parziale del diritto alla pensione.
Vediamo nel dettaglio i due rimedi.
- Richiesta di condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi omessi
Tale azione può essere esperita prima che il lavoratore abbia raggiunto l’età pensionabile e sempre che il diritto al pagamento dei contributi non si sia prescritto. Il diritto al versamento dei contributi direttamente da parte del datore (o in mancanza dall’Inps) si prescrive nel termine di 5 anni [3]. Tale termine quinquennale diventa decennale solo nel caso in cui il lavoratore abbia presentato formale denuncia di omessa contribuzione all’Inps.
Nel caso esaminato, il diritto al pagamento dei contributi si è sicuramente prescritto. Pertanto, nulla potrà pretendere la collaboratrice domestica.
Il termine di 5 anni si calcola infatti “a ritroso”, dal momento in cui il diritto viene rivendicato con una formale raccomandata a.r. di messa in mora. Tale denuncia interrompe il termine originario di prescrizione del diritto e dà avvio ad un nuovo termine prescrittivo decennale.
- Risarcimento del danno qualora dall’inadempienza contributiva sia derivata la perdita totale o parziale del diritto alla pensione
La seconda azione in genere viene esperita dal lavoratore quando il diritto al pagamento dei contributi direttamente da parte dell’Inps si sia prescritto e sia stato conseguentemente perso il diritto alla pensione: in questo caso, la determinazione del danno risulta dalla differenza tra quanto percepito dal lavoratore a titolo di pensione e quanto lo stesso avrebbe dovuto percepire se i contributi fossero stati regolarmente versati [4]. L’azione risarcitoria è accessibile solo quando il lavoratore abbia raggiunto l’età pensionabile ed il diritto di ottenere il risarcimento mediante esperimento di tale azione è soggetto a prescrizione decennale, a decorrere dalla prescrizione dei contributi omessi.
Nel caso di specie, quindi, la collaboratrice ha potenzialmente ancora diritto di chiedere non tanto il pagamento dei contributi non versati, quanto il risarcimento per la perdita del diritto alla pensione o ad un certo maggiore importo della stessa.
Sarebbe, pertanto, di estrema importanza, se la collaboratrice a mezzo di un legale o di un’associazione sindacale ha avanzato formalmente pretese, leggere esattamente quali sono le sue richieste, se di versamento dei contributi mancanti o di risarcimento del danno subito ai fini pensionistici. Nel primo caso, infatti, molto probabilmente il diritto di credito vantato dalla lavoratrice può dirsi prescritto e nulla più potrà pretendere; nel secondo caso, ricorrendo i presupposti del raggiungimento dell’età pensionabile e della prescrizione del diritto al versamento contributivo, la pretesa della collaboratrice domestica potrebbe essere fondata.
Quanto invece al mancato pagamento del tfr, la questione è decisamente più semplice. Il relativo diritto si prescrive in ogni caso nel termine di 5 anni dalla cessazione del rapporto di lavoro. Tutto ciò, come detto, partendo dal presupposto che il rapporto di lavoro intercorso tra le parti sia stato regolarmente denunciato. Qualora, invece, la collaboratrice abbia prestato lavoro in nero, la stessa non potrà pretendere il pagamento delle differenze contributive e su tfr maturate senza prima aver chiesto l’accertamento, da parte del giudice competente, dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del padre del lettore. Tale azione di accertamento di prescrive nel termine di 10 anni.
Un’azione giudiziaria di questo tipo esporrebbe, però, la collaboratrice stessa al rischio di essere indagata d’ufficio per reati connessi all’evasione fiscale o comunque alla percezione di compensi “in nero”. Sicuramente, infatti, nel corso degli anni, la collaboratrice ha percepito dei compensi mensili, sui quali – in ipotesi di rapporto irregolare – non ha mai pagato le tasse. Inoltre, la lavoratrice dovrebbe dimostrare per testimoni che effettivamente ha svolto attività di collaborazione domestica per un certo numero di anni, compiendo tutte le specifiche attività di assistenza, cura, e quant’altro assegnatole.
La prova in questi casi è difficile per la lavoratrice, lavorando in genere la stessa da sola e non avendo, pertanto, testimoni che possano confermare l’attività da lei svolta per averla direttamente vista operare.
Infine, pare opportuno valutare se le pretese della collaboratrice, un tempo a servizio del padre della lettrice, possano oggi essere rivolte a quest’ultima. Essendo il padre deceduto, ella ha acquisito – accettandone l’eredità – la qualifica di erede. Pertanto tutti i beni, i crediti ed anche – come nel caso di specie – i debiti del padre sono “passati” alla figlia e la collaboratrice domestica ha pieno diritto di agire, in mancanza del datore di lavoro nei confronti della figlia. Diversamente, nel caso in cui la lettrice avesse rinunciato all’eredità di suo padre, la collaboratrice nulla potrà pretendere nei suoi confronti.
FONTE: http://bit.ly/2kiGuli
L’ha ribloggato su Studio Seclì.
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