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Come si prova il danno da demansionamento lavorativo?

Il demansionamento rappresenta una violazione del diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto. In questo articolo, analizziamo le caratteristiche del demansionamento, gli effetti che produce sul rapporto di lavoro e i diritti che il lavoratore può vantare in caso di demansionamento illegittimo.

Il contratto di lavoro subordinato impegna il lavoratore a svolgere, sotto la direzione e il controllo del datore di lavoro, le mansioni per cui è stato assunto. La modifica delle mansioni può essere legittima in determinate circostanze, ma quando avviene in modo illegittimo, configura un «demansionamento».

In questo articolo vedremo innanzitutto cos’è il demansionamento, quando è ammesso e quando invece si considera illegittimo. In questo secondo caso il dipendente ha diritto al risarcimento, per cui scopriremo come si prova il danno da demansionamento lavorativo. Ma procediamo con ordine.

Cos’è il demansionamento?

Il demansionamento si verifica quando il datore di lavoro assegna al lavoratore mansioni inferiori rispetto a quelle per cui è stato inquadrato contrattualmente. Questo può avvenire in diversi modi:

  • assegnazione di compiti inferiori per complessità o professionalità;
  • riduzione delle responsabilità;
  • svuotamento delle attività assegnate al dipendente.

Effetti del demansionamento

Il demansionamento può avere diverse conseguenze negative per il lavoratore. Può portare a una diminuzione della motivazione, dell’autostima e della soddisfazione lavorativa. Inoltre, può influire negativamente sulla carriera del lavoratore, limitando le opportunità di avanzamento e di sviluppo professionale. In particolare, la giurisprudenza ha schematizzato i danni in tre categorie:

  • danno economico (quindi di natura patrimoniale): è rappresentato dalla riduzione della retribuzione o di altri emolumenti;
  • danno professionale (anch’esso di natura patrimoniale): è il pregiudizio alle opportunità di carriera e di sviluppo professionale del dipendente;
  • danno morale (danno non patrimoniale): è integrato dallo stress, dalla frustrazione e dalla demotivazione.

Come vedremo a breve, tali voci danno diritto al risarcimento.

Diritti del lavoratore

In caso di demansionamento illegittimo, il lavoratore ha diversi diritti:

  • richiedere il ripristino delle mansioni originarie, quelle cioè per cui è stato assunto;
  • risarcimento del danno: il lavoratore può chiedere il risarcimento del danno sofferto, sia quello patrimoniale (alla carriera) che non patrimoniale (stress, ansia, depressione, ecc.);
  • impugnazione del demansionamento: il lavoratore può impugnare, dinanzi al giudice del lavoro, l’ordine di servizio che lo ha adibito a mansioni inferiori per ottenere il ripristino del suo stato originario.

Quando il demansionamento è legittimo?

La legge ritiene legittimo il demansionamento in ipotesi eccezionali. Queste sono:

  • assegnazione a mansioni inferiori che rimangono nell’ambito di competenza del lavoratore;
  • riclassamento del personale a seguito di un nuovo Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL);
  • Assegnazione a mansioni diverse dopo un rifiuto del lavoratore di accettare posizioni lavorative offerte dalla società;
  • adibizione temporanea a mansioni di scarsa tecnicità che non compromettano la professionalità del lavoratore.

In tali ipotesi, il datore di lavoro deve comunicare al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta, a pena di nullità della comunicazione.

Il lavoratore ha comunque diritto a mantenere il livello di inquadramento e lo stipendio precedentemente riconosciutigli, esclusi gli elementi retributivi legati a particolari modalità di esecuzione del lavoro svolto in precedenza.

Come dimostrare il danno per demansionamento

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6275 del 2024, ha fornito chiarimenti fondamentali su come sia possibile dimostrare il danno subito da un lavoratore a causa del demansionamento.

In base all’articolo 2729 del Codice Civile, la prova del danno da demansionamento può essere fornita attraverso presunzioni gravi, precisi e concordanti. Elementi come: la natura e la quantità del lavoro svolto, le competenze professionali impiegate, il periodo di tempo durante il quale si è verificato il demansionamento e il nuovo ruolo assunto dal lavoratore possono tutti contribuire a costruire un quadro presuntivo solido. Questo permette di delineare il deterioramento delle condizioni lavorative e professionali del dipendente, influenzando sia la sua capacità lavorativa corrente sia le prospettive di crescita futura.

Nel caso specifico analizzato dalla Cassazione, un lavoratore aveva visto respingere la propria richiesta di riconoscimento del danno da demansionamento nei gradi di giudizio precedenti, spingendolo a ricorrere in Cassazione. I giudici di merito avevano trascurato di valutare adeguatamente gli elementi presuntivi forniti, tra cui la diversità delle mansioni pre e post formazione ricevuta, gli eventuali solleciti al superiore per un riadattamento delle mansioni e le implicazioni di tali cambiamenti sul profilo professionale del lavoratore.

La sentenza chiarisce inoltre la distribuzione dell‘onere della prova in contesti di demansionamento. Quando un lavoratore denuncia una riduzione delle proprie responsabilità lavorative, il datore di lavoro è chiamato a dimostrare che tale ridimensionamento non si è verificato o che era giustificato da legittime esigenze aziendali o da cause di forza maggiore, non imputabili direttamente all’impresa.

La Cassazione, nella sentenza in commento, ricorda quindi che ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva od interiore ma che incide sulla sfera non patrimoniale dell’individuo, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro principale rilievo la prova per presunzioni.

La prova del danno, spiega la Corte, può essere dedotta anche attraverso la allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, valutando quindi, quali elementi presuntivi, «la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata dell’adibizione alle mansioni di produzione (da comparare a quelle di natura impiegatizia precedentemente ricoperte), la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo il corso di formazione ricevuto, i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone», tutte caratteristiche suscettibili di valutazione ai fini dell’accertamento di un danno professionale, sia nel profilo di un eventuale deterioramento della capacità acquisita, sia nel profilo di un eventuale mancato incremento del bagaglio professionale. In sintesi, il principio di legittimità da applicare e quello secondo cui se è vero che il danno da demansionamento non è in re ipsa, tuttavia la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell’articolo 2729 del Codice civile, ovvero attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti.

«Quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile» (Cassazione 48 del 2024).

FONTE: https://shorturl.at/czADY

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