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Regolamento aziendale divieto di fumo

Cosa rischia il dipendente che, nonostante il divieto del datore di fumare durante le ore di lavoro, fa una pausa sigaretta?

Come noto, la “legge” che il dipendente deve rispettare è – oltre ovviamente a quella statale – contenuta nel regolamento aziendale e nel contratto collettivo (Ccnl). È proprio in tali documenti che si stabiliscono i comportamenti da tenere sul posto di lavoro e le relative sanzioni in caso di violazioni. 

In giurisprudenza, si è poi detto che il Ccnl può stabilire solo sanzioni meno gravi rispetto a quelle previste dalla legge. Sicché, se un determinato comportamento è ritenuto dalla legge come giusta causa di licenziamento e il contratto collettivo prevede invece una sanzione meno rigorosa, il datore non può risolvere il contratto di lavoro. Viceversa, se il Ccnl non prevede nulla, il datore dovrà orientarsi in base alla gravità del comportamento, tenendo conto che il licenziamento per giusta causa può scattare solo nei casi più gravi, quando cioè è stato definitivamente leso il rapporto di fiducia, tanto da non poter più essere recuperato. 

Caliamo ora queste regole in un argomento piuttosto delicato: il divieto di fumo nel luogo di lavoro. Molto spesso, il regolamento aziendale individua le aree ove è possibile godersi la pausa sigaretta o ne vieta completamente l’accensione. Questo perché è dovere del datore di lavoro salvaguardare la salute di tutti i dipendenti, soprattutto di quelli che non fumano. Sicché, “chi vuol farsi del male” dovrà farlo in luoghi aperti o comunque appositamente destinati al fumo e muniti di impianto di areazione. 

Cosa succede se, invece, un dipendente dovesse contravvenire al divieto di fumo contenuto nel regolamento aziendale? Chi viene trovato con la sigaretta accesa può essere licenziato? In caso contrario, quale altra sanzione subirebbe?

La risposta è stata fornita dalla Cassazione con una recente sentenza [1]. Te ne parleremo in questo articolo in modo semplice e pratico.

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro

A prescindere dall’apposta previsione nel regolamento aziendale, il divieto di fumo nei luoghi di lavoro è già previsto dalla legge ed adattabile a qualsiasi realtà. In particolare, l’articolo 51 della legge n. 3/2003 stabilisce che è vietato fumare nei locali chiusi, ad eccezione di:

  • quelli privati non aperti ad utenti o al pubblico;
  • quelli riservati ai fumatori e come tali contrassegnati.

Gli esercizi e i luoghi di lavoro riservati ai fumatori devono essere dotati di impianti per la ventilazione ed il ricambio di aria regolarmente funzionanti. 

Pausa sigaretta: è lecita?

Il dipendente gode di apposite pause dall’orario di lavoro previste dalla legge. Non può quindi abbandonare il posto di propria spontanea volontà (salvo le “urgenze” al bagno). 

La pausa sigaretta quindi non è tollerata. Tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che l’abbandono della postazione per pochi minuti (il tempo di consumare appunto una sigaretta) non può dar luogo a licenziamento se il comportamento è isolato. In tali casi, si dovranno adottare sanzioni di tipo “conservativo” (ossia che fanno salvo il posto di lavoro) come il richiamo o la sospensione.

Naturalmente, il discorso cambia nel momento in cui le pause diventano abituali tanto da togliere tempo al proprio lavoro più volte nell’arco della giornata. In questo caso, se il dipendente dovesse essere “insensibile” ai richiami del datore di lavoro potrebbe essere licenziato.

Diverso è il discorso se la natura e l’importanza della mansione svolta dal dipendente non ammette allontanamenti: si pensi a una guardia giurata dinanzi a una banca o a un controllore di un macchinario pericoloso. In tali ipotesi, anche un singolo episodio potrebbe dar luogo al licenziamento. 

Fumare sul lavoro: quali conseguenze?

Analizziamo ora un secondo aspetto: quello della violazione del regolamento aziendale che vieta di fumare nei luoghi di lavoro come misura di prevenzione e di tutela dei dipendenti. 

Anche in questo caso, ci sono buone notizie per i fumatori incalliti. Secondo la Suprema Corte, non può infatti essere licenziato chi viene sorpreso con la sigaretta accesa in orario d’ufficio e in barba al divieto; a meno che non metta a repentaglio l’incolumità e la salute dei colleghi.

Chiaramente, prima di esultare, bisognerà sempre verificare cosa stabilisce il proprio contratto collettivo nazionale che, come detto, potrebbe prevedere sanzioni specifiche per chi contravviene al regolamento aziendale e, in questo caso, al divieto di fumo. Il Ccnl sarebbe, infatti, autorizzato a prevedere il licenziamento nel caso di «pericolo per le persone o per gli impianti». Se però tale pericolo non sussiste, si potrà applicare una sanzione disciplinare meno pesante del licenziamento. 

Infatti, in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzione tra la condotta addebitata al dipendente e il recesso dal contratto di lavoro, rileva ogni comportamento che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali

È determinante, in tal senso, analizzare il comportamento del lavoratore nel caso concreto; questi, in particolare, non può essere perdonato quando, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, può porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento della sua prestazione, la scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi del datore e il mancato rispetto dei canoni di diligenza, buona fede e correttezza.

note

[1] Cass. sent. n. 12841/20 del 26.06.2020.

SENTENZA

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 febbraio – 26 giugno 2020, n. 12841

Presidente Di Cerbo – Relatore Boghetich

Fatti di causa

1. La Corte di appello di Genova, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha – con sentenza n. 305 depositata il 24.9.2018 – accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da PH Facility s.r.l., in data 11.8.2016, a C.G. , per aver contravvenuto al divieto di fumo durante l’orario di lavoro e presso un recondito ambito (intercapedine) dei locali della ditta committente Ansaldo Energia.

2. La Corte, circoscritto l’oggetto del licenziamento esclusivamente alla contravvenzione al divieto di fumare (con esclusione delle altre infrazioni contestate nella lettera del 28.7.2016), escludeva che il fatto addebitato al lavoratore, risultato provato, rientrasse nella previsione di cui all’art. 48, lett. b) del CCNL Pulizie – Multiservizi, disposizione che ricollega il licenziamento ai casi in cui il lavoratore sia trovato a “fumare dove può provocare pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti”, dovendosi, invece, ritenere integrata la previsione collegata al mero divieto di fumare dettata dall’art. 47 del medesimo CCNL e concernente la sanzione conservativa dell’ammonizione o della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con conseguente illegittimità del licenziamento ed applicazione della tutela reintegratoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.

3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a due motivi. Il lavoratore ha resistito con controricorso.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) avendo, la Corte distrettuale, fornito una motivazione incomprensibile ed apparente nella misura in cui ha affermato che la contestazione disciplinare e la lettera di licenziamento dovevano essere valutate nella loro interezza (ossia considerando l’intero comportamento tenuto dal lavoratore) e poi ha affermato che l’unico oggetto del licenziamento doveva ritenersi essere l’infrazione al divieto di fumare (con esclusione della condotta di insubordinazione e di inattività durante l’orario di lavoro).

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione e/o falsa applicazione della L. n. 3 del 2003, art. 51, nn. 1 e 2, art. 48 B, lett. f) e 47, lett. h) del ccnl imprese di Pulizia-servizi integrati-Multiservizi (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il divieto di fumare è, per legge, inderogabile e la clausola contrattuale richiede che il pregiudizio all’incolumità delle persone e alla sicurezza degli impianti sia anche solo potenziale.

3. Il primo motivo è inammissibile.

Nel caso di specie difetta la necessaria riferibilità delle censure alla motivazione della sentenza impugnata, in quanto la Corte territoriale non ha affermato che la contestazione disciplinarè e la lettera di licenziamento dovevano essere valutate nella loro interezza (ossia comprensive di tutti i fatti addebitati al lavoratore nella lettera di contestazione) bensì, effettuando un’operazione esegetica sia della lettera di contestazione disciplinare sia della lettera di licenziamento, ha rilevato che il datore di lavoro aveva, dapprima (nella lettera di contestazione), descritto una molteplicità di condotte inadempienti e, poi (nella lettera di licenziamento), si era limitato (per sua imponderabile scelta discrezionale) a sanzionare solamente il comportamento relativo all’infrazione al divieto di fumo.

La censura non coglie la ratio decidendi perché il ricorrente insiste sul contraddittorio percorso logico-giuridico esposto nella sentenza impugnata (insussistente, come anzidetto) ma nulla deduce sulla interpretazione delle lettere di contestazione disciplinare e di licenziamento.

4. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

La Corte territoriale – condividendo le conclusioni assunte dal Tribunale circa la vigenza del divieto di fumo (a norma di legge e di specifica disposizione adottata dalla ditta committente) in tutto lo stabilimento (Ansaldo Energia) presso il quale il C. era stato assegnato per lo svolgimento della sua attività lavorativa – ha valutato, ai fini di riempire di contenuto la clausola generale dettata dall’art. 2119 c.c., la scala valoriale del codice disciplinare contenuto nel contratto collettivo applicato in azienda; avendo rinvenuto due tipizzazioni contrattuali concernenti l’infrazione al divieto di fumo (l’una, ex art. 47 ccnl, punita con sanzione conservativa e l’altra, ex art. 48, lett. f) con sanzione espulsiva) ha proceduto alla verifica della sussistenza dei requisiti elaborati dalle parti sociali per l’adozione del provvedimento di licenziamento, pervenendo alla conclusione della impossibilità della sussunzione della condotta adottata dal C. nell’art. 48, lett. f) per carenza della situazione di “pericolo per le persone o per gli impianti”.

La Corte distrettuale, valutando sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della condotta e in specie la conformazione del luogo ove il lavoratore è stato trovato intento a fumare (zona di intercapedine tra uffici sprovvisto di impianti e di persone; assenza di attrezzature pericolose quali bombole contenenti materiale infiammabile; planimetria dello stabilimento), ha ritenuto di escludere la ricorrenza dei requisiti costitutivi della fattispecie contrattuale punita con sanzione espulsiva, in particolare rilevando che – alla luce delle circostanze concrete che caratterizzavano la condotta del lavoratore – non poteva ritenersi integrato un pericolo alla salute derivante dalla mera combustione di una sigaretta posto che l’infrazione al divieto di fumo in ambienti chiusi previsto dalla legge (L. n. 3 del 2003, art. 51) doveva misurarsi, quanto agli effetti sul rapporto di lavoro, con le due distinte previsioni disciplinari elaborate dalle parti sociali (artt. 47 e 48 ccnl).

4.1. Il percorso logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata è corretto e rispettoso dei principii di diritto formulati da questa Corte con riguardo al codice disciplinare contenuto nei contratti collettivi.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.

Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. n. 2013 del 2012 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. nn. 13574, 7948, 5095, 4060 del 2011).

In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass. 4060/2011 cit.).

Tuttavia la scala valoriale espressa dal contratto collettivo deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 dei 2018; principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019; Cass. n. 14063 del 2019; v. anche Cass. n. 13865 del 2019), considerato altresì che la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del 2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016).

Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse “non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).

In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo ed alla previsione di una scala valoriale recepita dal contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dall’art. 1362 c.c. e ss., che sussiste il divieto di interpretazione analogica delle clausole contrattuali e che l’interpretazione estensiva è possibile solo ove risulti l’”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, verifica che deve essere condotta con particolare severità in un contesto nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione (tutela reintegratoria nel testo della L. n. 300 del 1970, art. 18 come novellato dalla L. n. 92 del 2012) rispetto alla regola generale (tutela risarcitoria) deve essere interpretata restrittivamente. (Cass. n. 12365 del 2019 e ivi ampi riferimenti giurisprudenziali; conf. Cass. n. 31839 del 2019).

4.2. È, dunque, conforme ai principi sopra richiamati l’operato della Corte distrettuale che ha accertato se sussisteva la nozione legale di giusta causa di licenziamento, anche alla luce delle fattispecie previste dal ccnl di settore e sulla base della scala valoriale ivi contenuta, e, pervenuta alla esclusione della ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, ha svolto – ai fini della scelta del sistema sanzionatorio da applicare – una disamina sulla ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (dovendo, in assenza, applicare il regime generale costituito dalla c.d. tutela risarcitoria forte del comma 5).

5. In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese di lite sono liquidate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

6. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

FONTE: https://shorturl.at/izTU5

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