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Licenziamento per non accettare la riduzione dello stipendio: è mobbing

Mio marito è stato licenziato. A tutti i dipendenti era stato chiesto di firmare una riduzione dello stipendio ma lui non lo ha fatto. Può fare causa per mobbing nonostante l’azienda sia al di sotto dei 15 dipendenti?

Premettiamo che il licenziamento intimato oralmente è nullo: se è così, già questo consente di rivolgersi al giudice con buone possibilità di successo. Qualora invece, come è probabile, il datore di lavoro abbia rispettato le forme richieste (comunicazione scritta), la regolamentazione dei licenziamenti individuali distingue il caso dei lavoratori licenziati che erano stati assunti prima del 7 marzo 2015 da quelli assunti successivamente, per i quali sono state introdotte importanti riforme.

Nel nostro caso, poiché il marito lavorava nell’azienda da circa sette anni, trova applicazione la disciplina precedente. Essa prevede la nullità del licenziamento se la cessazione del rapporto di lavoro è stata determinata, come sembra nel caso in esame, quale misura di ritorsione per comportamenti non graditi al datore di lavoro: la mancata sottoscrizione dell’accordo di riduzione dello stipendio lascia trapelare la possibilità che sia questo il vero motivo del licenziamento anche se è pensabile che il datore di lavoro abbia cercato di trovare delle giustificazioni alla riduzione del personale, motivandola con la crisi aziendale. Il licenziamento per motivazione economica, infatti, è l’atto con il quale il datore di lavoro interrompe unilateralmente (cioè senza accordo da parte del lavoratore) il rapporto di lavoro con il dipendente utilizzando motivazioni che non riguardano il comportamento di quest’ultimo, ma la riorganizzazione o la crisi aziendale. Viene anche definito licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La prima cosa da fare, appena ricevuta la lettera di licenziamento, è quella di contestarlo con una raccomandata dichiarando che i motivi non si ritengono esistenti o validi e riservandosi di impugnarlo nelle sedi competenti. Se ciò non è stato fatto, vi sono sessanta giorni di tempo dal ricevimento della comunicazione per farlo con lettera raccomandata.

Se nella lettera di licenziamento non sono indicate le cause, si può invece fare una lettera con la quale si chiede che esse vengano spiegate: ciò va fatto entro sette giorni e poi, al ricevimento della risposta, decorrono i sessanta giorni per impugnare.

La giusta causa è un presupposto indispensabile per la validità del licenziamento: il datore di lavoro non può, infatti, sciogliere il contratto di lavoro a suo piacimento, ma vi debbono essere dei motivi validi che il lavoratore deve essere in condizione di conoscere.

Fatta questa premessa, occorre verificare se la “crisi aziendale” di cui la lettrice parla e che, probabilmente, sarà stata indicata dall’azienda quale motivo del licenziamento, sia -o meno – esistente. Occorrerà pertanto valutare la situazione di fatto e verificare se, per esempio, vi sia stata una diminuzione di fatturato, la perdita di importante clientela o, comunque, qualunque altro motivo che legittima la diminuzione del personale. Si ritiene però, ad onor del vero, che la precedente accettazione della riduzione dello stipendio da parte degli altri dipendenti sia un elemento che lascia desumere l’esistenza della crisi accampata dall’azienda per licenziare il marito.

La lettrice chiede se possano avere un qualche significato le circostanze che suo marito ha uno stipendio inferiore agli altri colleghi ed il fatto che il nucleo familiare comprenda anche un figlio. L’entità dello stipendio non mi sembra un elemento importante: non può essere questo il criterio per scegliere l’uno o l’altro dei dipendenti da licenziare. Potrebbe rivestire un qualche interesse, invece, la situazione familiare. Occorre, però, che le funzioni svolte dal marito possano essere considerate “fungibili” con quelle di altri dipendenti con minor carico familiare o con minore anzianità. Cosa vuol dire “fungibili”? Occorre, in sostanza, accertare se le medesime mansioni del marito continuino ad essere svolte da altri dipendenti e se questi, mantenuti in servizio, siano meno anziani od abbiano minori carichi di famiglia. Dovranno essere la lettrice e il marito a verificare questa circostanza, poiché conoscono bene la situazione concreta dell’azienda. Si può comunque affermare che alla presenza di queste circostanze (maggiore anzianità e maggior carico familiare) il licenziamento del marito è contrario ai principi di buona fede che debbono soprassedere all’esecuzione del contratto di lavoro, come di qualunque altro contratto.

In sostanza, il codice civile [1] stabilisce espressamente che le parti di un contratto debbono comportarsi attenendosi al principio della buona fede: il datore di lavoro che, dovendo scegliere chi licenziare tra più lavoratori svolgenti le medesime mansioni, sceglie il lavoratore con maggiori carichi di famiglia o il più anziano, non mantiene un comportamento di buona fede.

Cosa succede se il giudice accerta che il licenziamento può essere definito discriminatorio o ritorsivo? Quanto detto prima, rafforzerebbe la tesi di un licenziamento ritorsivo messo in atto per punire il marito dello “sgarbo” di non aver accettato la diminuzione di stipendio. Molto importante sarà comunque, nei prossimi mesi, che non vengano fatte nuove assunzioni perché questo sarebbe un elemento essenziale per la nostra tesi. Nel caso di licenziamento ritorsivo o in mala fede, il marito potrà chiedere la riassunzione in servizio [2]. Dovrà essere l’azienda, in ogni caso, a provare che non vi è stata mala fede nella scelta.

Quali sono gli effetti dell’eventuale sentenza di annullamento del licenziamento perché discriminatorio o ritorsivo? Nel caso in cui il datore di lavoro impieghi meno di quindici dipendenti (come nel caso in esame) il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia rinunciato ad essere riassunto avendo la possibilità, a sua scelta, di chiedere entro trenta giorni dalla sentenza o dall’invito a riprendere il lavoro, il pagamento di quindici mensilità di retribuzione invece che la riassunzione. Con la medesima sentenza, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento, pari all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. Con una limitazione minima e massima: il minimo è di cinque mensilità; il massimo di dodici. Da tale indennità dovranno essere detratte le somme che il lavoratore avesse percepito nel frattempo o svolgendo altre attività lavorative o incassando, per esempio, l’indennità di disoccupazione. Dovranno essere versati anche i contributi relativi al periodo di assenza dal lavoro.

Cosa succederebbe se il licenziamento venisse considerato privo di giustificato motivo per inesistenza della situazione di crisi aziendale? Questa ipotesi è diversa dalla precedente: presuppone che non vi sia stata una motivazione di ritorsione, ma che, allo stesso tempo, non esistano le ragioni di crisi aziendale prospettate dal datore di lavoro. Ovviamente ci riferiamo alle aziende con meno di quindici dipendenti, come nel nostro caso. Non è prevista, nel caso di illegittimità del licenziamento, la riassunzione in servizio: il lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 avrà diritto a una tutela esclusivamente economica. In particolare, quando il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il lavoratore entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a versargli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. L’esatto ammontare dell’indennità è determinato dal giudice in base al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. In sostanza, il datore di lavoro potrà pagare per non riassumere.

Nel caso di licenziamento, il lavoratore deve impugnare il provvedimento entro il termine di decadenza di 60 giorni dal ricevimento della comunicazione e, contestualmente, offrire la propria prestazione lavorativa, mediante invio di raccomandata a/r al datore di lavoro. Entro il termine di sessanta giorni, in altre parole, il lavoratore deve inviare all’imprenditore una comunicazione (in qualunque forma, anche una semplice lettera raccomandata) con la quale rende noto che intende contestare il licenziamento. Successivamente, entro 180 giorni, dovrà depositare il ricorso nella cancelleria del tribunale impugnando davanti al Giudice il licenziamento.


Fac simile impugnazione licenziamento

Il sottoscritto …, già dipendente di codesta azienda con le mansioni di …, in relazione al licenziamento intimatogli con lettera raccomandata (o altro) del … ricevuta il … dichiara di impugnarlo perché nullo, privo di giusta causa, motivato da ragioni di carattere ritorsivo.

Si riserva pertanto di tutelare le proprie ragioni nei modi e termini di legge, dichiarando di essere subito disponibile a riprendere le proprie prestazioni lavorative.

Data

Firma

(Da spedire con raccomandata a.r.)

note

[1] Art. 1175 cod. civ.

[2] Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

FONTE: http://bit.ly/2oSpGUN

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