Licenziamento per colpa del dipendente in buona fede: è legittimo?
Siamo abituati a pensare che il licenziamento per giusta causa scatti solo per condotte dolose, poste cioè in malafede e con l’intenzione precisa di realizzare un determinato comportamento che, di fatto, è dannoso per l’azienda. Ma, nell’arco di un rapporto lavorativo, si può anche sbagliare in buona fede: errare è umano ed è di tutti, a prescindere dal ruolo. In ipotesi del genere, quali sono i poteri disciplinari che competono al datore di lavoro? Si può sanzionare, o peggio licenziare, un dipendente distratto, incauto o negligente? Per l’errore sul lavoro chi paga? Una recente sentenza della Cassazione affronta il problema del licenziamento per colpa.
Per comprendere meglio le motivazioni della pronuncia facciamo un esempio pratico, che poi corrisponde al caso prospettato innanzi ai giudici.
Immaginiamo che, in un negozio, il cassiere si assenti per malattia. Al suo posto, viene piazzato un altro dipendente. In due occasioni diverse, però, a fine giornata risultano degli ammanchi di cassa. Viene così contestato al dipendente l’indebito prelievo di denaro contante dal registratore, ma non ci sono prove a sorreggere l’accusa penale. La telecamera di videosorveglianza rivela, però, un altro particolare: il “sostituto cassiere” si sarebbe assentato per ben due volte dalla sua postazione per una pausa sigaretta, lasciando il denaro alla mercé delle commesse. Così, ricostruita la vicenda, l’uomo viene licenziato per giusta causa. Fin troppo scontata la sua reazione: «Perché devo rispondere io degli illeciti degli altri? Per un errore sul lavoro chi paga?» si chiede affranto il responsabile. Per il datore di lavoro, però, non ci sono giustificazioni: il lavoratore, seppur in buonafede, aveva l’obbligo di vigilare sui ricavi della giornata. Chi ha ragione?
Il giudizio sul licenziamento
La valutazione del comportamento del dipendente spetta sempre, in prima battuta, al datore di lavoro. È questi chiamato a pesare la gravità della condotta posta in essere dal lavoratore con il tipo di sanzione disciplinare da infliggergli. Solo nei casi più gravi, l’azienda può disporre il licenziamento. Licenziamento che deve essere considerato l’ultima spiaggia, la soluzione adottabile solo in quelle ipotesi in cui il rapporto di fiducia si è, ormai irrimediabilmente spezzato.
È chiaro che, in caso di contestazione del dipendente (da sollevare entro 60 giorni con lettera raccomandata e da proseguire, nei successivi 180, con deposito del ricorso in tribunale), il giudizio sul comportamento del dipendente – e, quindi, sulla legittimità del licenziamento – si sposta in capo al giudice.
Ma come avviene tale valutazione? La legge non fissa indicazioni o parametri generali per capire quando licenziare per giusta causa (ossia “in tronco”) o per giustificato motivo soggettivo (ossia “con il preavviso”). Ma la giurisprudenza ha dato alcune indicazioni nel corso degli anni. Ad esempio, proprio di recente, la Cassazione [2] ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa se l’inadempimento del dipendente non ha comportato danni all’azienda. La violazione di procedure interne per giustificare tutt’al più il licenziamento con preavviso, ma non il recesso in tronco.
Per evitare abusi, i contratti collettivi nazionali di lavoro indicano normalmente quali sono le violazioni per le quali è possibile licenziare. In merito, la giurisprudenza ha chiarito che, in caso di comportamento grave non regolamentato dal Ccnl, il datore di lavoro può comunque intimare il licenziamento (la giusta causa di licenziamento discende infatti dalla legge e non dal contratto collettivo); tuttavia se il Ccnl prevede per quel comportamento una specifica sanzione, il datore di lavoro non può infliggerne una più grave.
Licenziamento per colpa
Nella sentenza in commento, con riferimento al licenziamento per colpa, e quindi per comportamenti posti senza dolo ma in buona fede, la Cassazione ha detto che il recesso dal rapporto di lavoro è astrattamente possibile. Non basta accertare la natura colposa della violazione per escludere il licenziamento. Il giudice, infatti, deve valutare la condotta del lavoratore in tutti gli aspetti a prescindere dalla fattispecie contrattuale.
Non rileva il fatto che il codice disciplinare preveda il licenziamento solo per le condotte dolose. Resta, infatti, possibile accertare l’entità della violazione dell’obbligo di diligenza.
Il giudice può escludere che un comportamento, pur sanzionato dal contratto collettivo con il licenziamento, integri una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, avuto riguardo sia alle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato sia alla compatibilità con il principio di proporzionalità.
Nello stesso tempo, però, stante l’inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, il giudice è sempre tenuto a verificare se la previsione del contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo.
Ne consegue che, nel giudizio di opposizione al licenziamento, «il giudice deve verificare la condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono» anche al di là della regolamentazione fatta dal Ccnl.
I precedenti della Cassazione
Non è la prima volta che la Corte legittima il licenziamento per un errore del dipendente. Ad esempio, in un precedente di non molto tempo fa la Corte ha detto [3] che anche il lavoratore negligente può essere licenziato per giusta causa se la sua condotta risulta grave e protratta nel tempo: in tal caso, il lavoratore abusa della fiducia posta in lui dal datore e rende, dunque, impossibile la prosecuzione del rapporto. D’altronde – scrivono i giudici – la giusta causa di licenziamento non si configura soltanto quando la condotta addebitata al lavoratore si presenta come intenzionale o dolosa: anche un comportamento colposo può far scattare il recesso dal rapporto di lavoro se sussistono gli altri indici tipici della fattispecie; dipende ad esempio dal danno subìto dall’azienda, dal grado di responsabilità e affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e dalle circostanze specifiche.
Il licenziamento per negligenza è molto ricorrente nel caso di cassiere. L’affidamento della gestione del denaro implica un grado di attenzione e di diligenza superiore a quello degli altri dipendenti (ragion per cui a tali mansioni corrisponde una maggiorazione in busta paga, la cosiddetta «indennità di cassa»). Anche in un altro precedente la Cassazione [4] ha riconosciuto la possibilità di licenziare un cassiere per colpa.
Licenziamento per colpa: ultime sentenze
Tipizzazione nella contrattazione collettiva per l’apprezzamento della giusta causa di recesso: è vincolante?
In materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, essendo richiesto, comunque, l’accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, fermo restando, tuttavia, che, anche nel caso in cui proceda a valutazione autonoma della fattispecie contemplata dalla norma collettiva, il giudice del merito non può prescindere dalla considerazione del contratto collettivo e dalla scala valoriale ivi espressa nella individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e nella relativa graduazione delle sanzioni.
(Nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’invio sporadico, da parte del dipendente, di alcune e-mail relative ad attività lavorativa svolta per conto proprio, mediante l’utilizzo della mail di proprietà aziendale durante l’orario di lavoro, costituisse condotta punibile con sanzione conservativa, in quanto non equiparabile a quelle, esplicitamente contemplate dal contratto collettivo quali fattispecie sanzionabili con il licenziamento, connotate, sotto il profilo oggettivo, dalla concreta idoneità delle stesse ad influire in vario modo sulla funzionalità dell’organizzazione dell’impresa o sulla serenità dell’ambiente di lavoro).
Cassazione civile sez. lav., 22/05/2019, n.13865
Sì al licenziamento disciplinare per il dipendente che non comunica la malattia
La valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 c.c. (confermata, nella specie, la sanzione disciplinare decisa dal datore di lavoro anche in virtù della qualità di rappresentante sindacale ricoperta da un lavoratore licenziato per aver comunicato con ritardo la prognosi ed il numero di protocollo della malattia).
Cassazione civile sez. VI, 10/07/2018, n.18118
Contratto di lavoro a tempo indeterminato e giusta causa di licenziamento
L’art. 2119 c.c. prevede che il contratto di lavoro a tempo indeterminato possa essere risolto unilateralmente e senza preavviso qualora si verifichi una causa che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto.
La giurisprudenza di legittimità ha ravvisato la giusta causa di licenziamento, tradizionalmente ricondotta alla tipologia della clausole generali, in tutti quei comportamenti che, valutati con riferimento agli aspetti concreti della vicenda sotto il profilo oggettivo e soggettivo (natura e qualità del singolo rapporto, grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, motivi, intensità del dolo e della colpa), si concretano in una negazione degli elementi del rapporto di lavoro di gravità tale da far venir meno la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel lavoratore.
Tribunale Chieti, 29/03/2018, n.119
Licenziamento disciplinare: limiti e condizioni di legittimità
In tema di licenziamento disciplinare, lo stesso può considerarsi legittimo solo se, valutato ogni aspetto del caso concreto, la mancanza del lavoratore sia di tale gravità che ogni altra sanzione di tipo sospensivo risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro ad una corretta attuazione del rapporto obbligatorio esistente tra le parti; a tal fine è necessario fare specifico riferimento a tutti gli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto che su di esso possa incidere negativamente.
Tribunale Chieti sez. lav., 10/07/2018, n.240
Grave comportamento del dipendente: è giustificato il licenziamento se manca la consapevolezza?
La norma di cui all’articolo 2106 del codice civile, consente al giudice non solo di accertare l’effettiva sussistenza del fatto contestato, ma anche di valutare se questo fatto sia così grave da determinare l’applicazione della sanzione irrogata dal datore di lavoro (nel caso di specie, il licenziamento disciplinare con la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro) tenendo anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore.
Nel caso di specie, anche se il comportamento tenuto dal dipendente deve essere considerato “grave”, tuttavia dal punto di vista soggettivo, gli episodi devono essere inquadrati come manifestazione del carattere del medesimo, quindi, privi dell’elemento soggettivo che può identificarsi nel concetto di colpa grave.
Corte appello Brescia sez. lav., 28/04/2017, n.226
note
[1] Cass. sent. n. 19023/19 del 16.07.2019.
[2] Cass. sent. n. 13032/19 del 15.05.2019.
[3] Cass. sent. n. 9675/19 del 5.04.2019.
[4] Cass. sent. n. 13512/16 del 1.07.2016.
FONTE: https://bit.ly/2YXxkuI